Inclusività: che cos’è il linguaggio inclusivo e perché ne abbiamo bisogno

Inclusività: che cos’è il linguaggio inclusivo e perché ne abbiamo bisogno

Inclusività e linguaggio inclusivo: sul web se ne parla sempre di più e non sempre con chiarezza. Per evitare di fare confusione ho preparato questa piccola guida in cui spiego cos’è l’inclusività e perché ne abbiamo bisogno, sia come persone che come aziende.

So cosa stai pensando e ti fermo subito: linguaggio inclusivo e inclusività non sono l’ultima moda né il frutto del politicamente corretto (che, ricordiamolo, non esiste). Ma, se sei qui, probabilmente ne hai sentito parlare e vuoi mettere un po’ in ordine le idee.

Ti lascio subito qui una definizione. Si parla di inclusività quando tutte le categorie sociali, economiche, etniche, sono sullo stesso piano in tutto e per tutto, dal punto di vista politico, sociale e fattuale.

Semplice? Insomma. Ma facciamo un passo alla volta.

Inclusività e privilegio: cosa c’entrano l’una con l’altro?

Per spiegare bene cos’è l’inclusività partirei dal concetto di privilegio.

Si parla di privilegio quando una categoria, un’etnia o un determinato gruppo di persone ha, nella vita di tutti i giorni, dei vantaggi rispetto ad altre categorie. Questi vantaggi possono essere i disparati: per fare un esempio, gli ultimi dati del World Economic Forum ci dicono che l’Italia è terzultima in Europa per Gender Pay Gap (peggio di noi solo Malta e Cipro). Questo significa che gli uomini hanno il privilegio di non doversi preoccupare di essere pagati meno di una donna a parità di mansione.

Allo stesso modo le persone abili sfruttano il loro privilegio nel momento in cui per esempio parcheggiano l’auto sul posto riservato con le linee gialle pensando “eh ma per 5 minuti che sarà mai”.

Le persone bianche hanno il privilegio di poter camminare per strada senza essere insultate perché nere. Oppure, come è capitato non più tardi di qualche settimana fa, e come capita ogni tot di tempo come una sveglia fastidiosa, alcuni programmi tv che fanno blackface (ovvero quella pratica totalmente razzista di dipingersi la faccia di nero) o usano la N word.

inclusività linguaggio inclusivo
Joe Keller/Unsplash.com

Questo vuol dire che il privilegio è qualcosa di malvagio? Assolutamente no: tuttə noi siamo privilegiatə rispetto a qualcuno. Non è una colpa essere bianchə o (temporaneamente) abili – perché il concetto di disabilità è molto più sfaccettato della rappresentazione pietistica che se ne fa di solito. Il punto è come usiamo il nostro privilegio, se per averne vantaggi personali o per darci da fare per dividere lo spazio con le persone che quel privilegio non ce l’hanno e “cedere il microfono”.

In parole molto povere, il privilegio è il risultato di specifici rapporti di potere che si esplicano, oltre ai fatti, anche con le parole.
È qui che entra in gioco il linguaggio.

Inclusività: qual è il ruolo del linguaggio?

Partiamo da un assunto fondamentale: ciò che non viene nominato non esiste. La parola è creatrice, dà forma al nostro mondo, al nostro pensiero: gli esseri umani creano parole nuove quando ne hanno bisogno per descrivere la realtà – e questo succede in tutte le lingue del mondo. Abbiamo creato uno strumento per scrivere su carta e l’abbiamo chiamato penna, abbiamo messo in commercio un dispositivo che ci connette con il web e lo abbiamo chiamato smartphone, e così via.

Ma qual è una delle funzioni più utili del linguaggio? Che possiamo scegliere come usarlo per creare testi efficaci, cioè possiamo scegliere come usare il nostro privilegio. Le parole che scegliamo hanno la capacità di darci una visione del mondo, appunto, più inclusiva. 

Il linguaggio inclusivo dovrebbe avere come faro nella notte questo concetto: non minimizzare l’impatto delle parole ma sceglierle con attenzione in modo da far sentire le persone, tutte le persone, accolte e rispettate nella loro unicità. Il nostro linguaggio includerà quindi anche categorie marginalizzate che non si riconoscono, ad esempio, nel maschile sovraesteso o nelle desinenze maschile/femminile, perché la loro identità di genere è fluida. 

Piccolo appunto: c’è una differenza sostanziale tra sesso (cioè la caratteristica biologica con cui nasciamo) e il genere (che invece è una costruzione sociale in base al sesso con cui si nasce). Il genere porta con sé una serie di stereotipi perlopiù dannosi che il linguaggio inclusivo cerca in ogni modo di sradicare: le donne sono meno portate per le materie scientifiche, gli uomini non piangono; le donne hanno un istinto materno innato, gli uomini sono più propensi alla leadership. E così via.

Quindi, quali sono i campi di applicazione del linguaggio inclusivo?

Il linguaggio inclusivo non si limita a dare una soluzione alternativa al maschile sovraesteso: i campi di applicazione sono tantissimi. Provo qui a elencarne alcuni.

  • Evitare stereotipi di ogni tipo e tutto ciò che contribuisce a rinforzarli. Il linguaggio inclusivo combatte cliché e luoghi comuni quando si parla di genere, orientamento sessuale, abilità, etnia, religione, scelte personali, scolarizzazione.
  • Un’altra soluzione che il linguaggio inclusivo cerca (ad esempio con il tanto vituperato schwa) è indicare un terzo genere per le persone che non si riconoscono nel sistema di generi binario maschile/femminile che la nostra società promuove. Sostituire la desinenza maschile o femminile con un “neutro” che purtroppo in italiano non esiste, ci pone davanti a diverse opzioni come appunto lo schwa, l’asterisco o la u.
  • Il linguaggio inclusivo è antirazzista, antiabilista, non è sessista, omolesbobitransfobico o grassofobico, e rappresenta la diversità in modo specifico. In che modo? Ascoltando chi quella diversità la vive sulla propria pelle tutti i giorni, ascoltando le parole che le persone usano per definirsi: è l’unico modo per creare un vocabolario rispettoso di ogni individualità, che dia una nuova forma, più completa e inclusiva, alla realtà. 
  • Non solo: la scelta delle parole riguarda anche quelle da evitare, quelle che possono far scattare una reazione di disagio, rabbia o inadeguatezza per alcune categorie di persone. Un esempio è appunto la “N word” che citavo poco più su. 

Già sento in lontananza l’obiezione delle obiezioni: ma se dobbiamo fare attenzione a tutti questi aspetti del linguaggio, a tutte queste rappresentazioni diverse, allora… non si può più dire niente!

Uhm. Ma è vero che non si può più dire niente? O piuttosto è arrivato il momento di ammettere che la realtà e le persone che la abitano sono complesse, che ci serve impegno e attenzione, e che tutte le persone sono degne di essere rappresentate con le parole giuste?

Ci vuole impegno, è vero. Ci vuole attenzione, ci vuole empatia, ci vuole costanza.

È facile? No.

Sbaglieremo? E mica una volta sola.

È faticoso, a volte sfiancante per chi lotta ogni giorno per vedere riconosciuto il semplice diritto di esistere.

Ma stiamo vivendo un periodo storico di grandi cambiamenti sociali e politici, e tanto basta per volerne essere parte attiva.